ISTITUZIONI

Nobiltà e patriziato nella Milano del ‘700 Alice Pizzocaro

A metà del Settecento il panorama aristocratico milanese era caratterizzato da una precisa stratificazione gerarchica. Al suo vertice vi era un ristretto numero di famiglie ascritte al patriziato cittadino le quali potevano vantare sicure ascendenze d’epoca comunale. I loro avi erano i signori d’investitura feudale che si erano inurbati in età comunale, ma anche i nobili di origine cittadina che avevano ricoperto cariche e uffici di prestigio all’interno della municipalità.
A questo nucleo originale di famiglie si venne ad aggiungere nel corso dei secoli una nobiltà nuova e nuovissima. I Visconti e gli Sforza per primi non lesinarono nelle investiture feudali per allargare e rafforzare il loro potere legando a sé e nello stesso tempo gratificando le famiglie a loro più fedeli. Ma fu soprattutto nella successiva età spagnola che la vendita di titoli e terre divenne pratica corrente per sopperire alle impellenti necessità finanziarie della corona. D’altra parte i finanzieri, i grandi mercanti, i possidenti che disponevano di ingenti fortune, trovarono nelle investiture feudali un mezzo per elevare il proprio ruolo sociale. Tuttavia bisogna sottolineare che nel milanese il conseguimento di un titolo legato ad un feudo era solo il primo atto di un lungo percorso che doveva portare al più alto grado nobiliare cioè al patriziato. Per tradizione questa compatta oligarchia fondava la sua identità sul privilegio di esercitare la giurisdizione sulle maggiori cariche politiche della città. I requisiti in base ai quali una famiglia poteva accedere al patriziato vennero definiti fra il XVI e XVII secolo dalle stesse magistrature cittadine. Un responso del Collegio dei Giureconsulti di Milano del 1663 sanciva che per accedere al patriziato bisognava aver risieduto in città per più di cento anni e non aver esercitato alcuna attività ritenuta vile. Dunque i non nobili, i nobili che avevano ottenuto solo di recente la cittadinanza e quelli dediti ad arti vili erano esclusi dal governo della città. Esclusivo appannaggio dei patrizi milanesi erano il Collegio dei Giureconsulti e il Consiglio dei Decurioni, i cui membri potevano ambire alle maggiori cariche cittadine. Fino alla metà degli anni sessanta del Settecento, quando cioè ebbe inizio la grande età delle riforme teresiane e giuseppine, i privilegi e le giurisdizioni del patriziato non furono mai messe in seria discussione dai Sovrani. I governatori che giungevano a Milano a rappresentare il potere centrale trovavano in queste casate di antichissimo lignaggio il vero e unico soggetto sul quale fidare nella concreta pratica di governo. Dal canto loro i patrizi seppero difendere i loro privilegi non solo dalle spinte accentratrici dei sovrani, ma anche dai tentativi interni al mondo nobiliare di metterne in discussione la supremazia gerarchica. L’istituzione nel 1767, per volere di Maria Teresa, di un Tribunale Araldico creato per dare una sistemazione organica all’intricata materia nobiliare sembrava andare incontro alle istanze del patriziato di debellare ogni abuso di armi e titoli. In verità l’Ufficio araldico finì per sancire il principio che un casato poteva considerarsi nobile o patrizio solo dopo il riconoscimento del Sovrano. Con l’istituzione del Tribunale Araldico, infatti, per la prima volta l’autorità imperiale non solo avocava a sé il diritto di individuare e conoscere tutti i nobili esistenti nel Ducato ma anche di definire i criteri di nobiltà che fino ad allora erano stati dettati dalla città e dal suo patriziato.

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