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IL RINASCIMENTO MILANESE (1450-1499)

Nel Quattrocento l’Italia era un paese diviso e frammentato in tanti stati, signorie più o meno grandi, città-stato. Eppure, proprio in questo secolo, l’Italia, che politicamente ancora non esisteva, ha prodotto una cultura di altissimo livello che la identifica agli occhi di tutti come un Paese: Umanesimo e Rinascimento, sono quindi le due facce della stessa medaglia che tuttora oggi rappresentano la Golden age italiana.
In realtà Milano, per buona parte della seconda metà del Quattrocento, fu restìa ad abbracciare le novità rinascimentali, si arroccò al gusto gotico che, con la sua raffinatezza ed eleganza, meglio esprimeva il fasto cortese, cosicché di vero e proprio Rinascimento si può parlare solo negli ultimi vent’anni del secolo con la salita al potere di Ludovico il Moro. Di certo anche gli anni di governo del duca Francesco Sforza, grazie alla Pace di Lodi del 1454 da lui promossa, segnarono un rinnovamento culturale per l’arrivo a Milano di artisti toscani, portatori della nuova cultura rinascimentale che in arte e in architettura in primis si basava su un approccio razionale, di una misura classica e di un lessico antico.
Un esempio fra tutti è l’Ospedale Ca’ Granda, nel 1456 fondato da Francesco Sforza e da sua moglie Bianca Maria Visconti e impostato nella sua architettura modulare rinascimentale dal toscano Antonio Averulino detto il Filarete, ma poi tornato alle forme gotiche con Guiniforte Solari.
Ma com’era la forma urbis di Milano del Quattrocento? Era una città chiusa nelle mura medievali che la cingevano all’altezza dell’attuale circonvallazione interna. Intorno ad essa correva la cerchia del Naviglio, la più importante via d’acqua che serviva al trasporto di ogni bene, in una città che in questa sua forma «fatta a mo’ di cerchio» (Bonvesin de la Riva, De magnalibus Mediolani), e nel suo continuo sviluppo urbanistico a macchia d’olio è rimasta tale, nei secoli a venire, fino ai nostri giorni. All’interno delle mura trecentesche, un tessuto di strade e vicoli bui, malsani, di un’edilizia fitta, con tre eccellenze “fuori scala”: la Cattedrale, il Castello e l’Ospedale, edifici simbolo di un potere religioso e politico, dove la Ca’ Granda appariva agli occhi di tutti i cittadini come il volto munifico di quegli stessi duchi che esercitavano il potere assoluto.
Del resto, il mecenatismo era uno strumento di propaganda politica, gli stessi Sforza lo usarono per legittimare il proprio governo e per ottenere un consenso da parte dell’aristocrazia milanese, a partire dal duca Francesco I che fu protettore delle lettere e delle arti, curò con interesse l’ampliamento della biblioteca del castello di Pavia e molti furono i codici che egli fece trascrivere per l’educazione dei figli Galeazzo Maria e Ippolita Maria.
«Venite dico a Atene, oggi Milano», cantava la musa cortigiana in lode al Moro proprio a suggello della sua corte, definita la più splendida d’Europa. Dove la cultura trovava espressione nei testi dei poeti Bernardo Bellincioni e Gaspare Visconti, del matematico Luca Pacioli, del musico Franchino Gaffurio, degli storiografi Giovanni Simonetta e Bernardino Corio e naturalmente, nell’arte di Donato Bramante e di Leonardo da Vinci! Alla luce della classicità latina e greca che divenne un modello da imitare, gli umanisti svolgevano mansioni di insegnanti, di cancellieri e di segretari, e si affiancavano agli stampatori nella produzione dei primi libri a stampa. Sono questi gli incunaboli, manifestazione visiva della raffinatezza dell’arte tipografica a cui Milano era giunta nel suo momento più aureo, ancor prima della disfatta dei francesi nel 1499.

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